venerdì 29 ottobre 2010

"Pipol mit in architectur"

In realtà parlerò del solo padiglione italiano.
"AILATI riflessi dal futuro", curato da Luca Molinari, il tanto bistrattato e deplorato padiglione italiano già immediatamente dopo l'annuncio della designazione del curatore e prima ancora che lo stesso raccogliesse le idee sul da farsi, se non è quello che ha centrato il tema della Biennale, è senz'altro fra quelli, insieme all'olandese (Vacant NL where architecture meets ideas), belga (Usus/Usures), spagnolo (Architecture whithin limits), dei paesi nordici (Stay in touch) e finlandese (Schools) nel padiglione Alvar Aalto, che più si è avvicinato al tema della Biennale. Forse per la prima volta non sono state esposte proposte di quello che potrebbe essere, o quello che si ritiene giusto debba essere (vedi Vema...). Stavolta sono stati presentati progetti e proposte concrete, in discussione o già in corso d'opera (c'è un'apposita sotto sezione). Questa volta davvero la gente comune ha potuto avvicinarsi all'architettura attraverso un discorso mediato, ma comprensibile. Ci sono plastici, immagini, video e audio (quest'ultimo, a dire il vero, in un caso davvero noioso) che mostrano quello che si è fatto o quello che si sta facendo, su come utilizzare i beni sequestrati alle mafie, come costruire qualità a meno di 1000 €/mq, come si trasforma la città contemporanea. Insomma è proposta architettura per l'uomo dove l'uomo non deve fare voli pindarici con l'immaginazione per comprendere un simbolo, ma dove il simbolo è volutamente poco intimo e molto pratico.
Forse è questo che ha fatto rizzare i capelli ai puristi della lingua architettonica, ma forse è proprio la retorica del "bel dire" che ha allontanato il fine ultimo dell'architettura, cioè l'uomo, dall'architettura stessa, forse è proprio questa retorica a permettere ad urlatori da palcoscenico di dire che gli architetti non capiscono niente (e, detto fra noi, se si continua sulla linea del "bello snob", forse ha ragione l'urlatore), forse è questa retorica che non fa distinguere alla gente comune l'edilizia con l'architettura accusando, i più istruiti, LeCorbusier di peccati che non ha commesso, ed è la stessa retorica che ha cristallizzato il discorso di molta critica.
L'Italia è indietro su molte cose e la volontà di non voler vedere avanti è la peggiore minaccia. Sarebbe ora di finirla con le critiche pregiudiziali e le invidie sociali, perché non servono a nulla se non ad acuire il proprio astio personale. Occorre costruire proposte concrete, progettare architettura pensando all'uomo, comprenderne le esigenze e tradurle in spazio. Occorre vedere dentro l'architettura non fuori ed il dialogo "ailati" è proprio quello che ha tentato di fare: vedere intorno per guardare dentro.

domenica 29 agosto 2010

Questione di gesti...

Lo spunto per questo post mi è stato dato dal filmato del concorso internazionale "Miss Deaf" (Miss sordomuta), pubblicato da Anny Tronco, stilista ed artista pop-art casertana, che degli abiti indossati dalle modelle è la disegnatrice. Per una volta mi sono visto appartenere a quella minoranza udente per la quale erano stati predisposti, non in vista, due "traduttori" della lingua dei segni. Se non fosse stato per quelle due voci, sarei stato impossibilitato a capire cosa dicevano i presentatori e le modelle, un po' quello che accade quotidianamente ai non udenti (e non vedenti) nelle nostre città. E qui ritorna un mio vecchio post nel quale parlo dei problemi direttamente derivanti da un progetto architettonico non pensato per l'uomo, ma per un certo tipo di uomo, come per il Ponte della Costituzione di Calatrava che, per stessa ammissione dell'architetto, non era stato pensato per i disabili in carrozzella in quanto la prima idea era quella di realizzare dei piccoli gradini continuando la tipologia dei ponti veneziani sul Canal Grande (che, per la verità, hanno dei gradini). Il fatto è che nel 2000 (il progetto risale al 1998...) non si può più pensare ad un progetto destinato ad una parte dell'umanità e né si può pensare in termini di percentuale maggiore di "normodotati" contro "disabili". Le città e, di conseguenza, le architetture, vengono vissute, percepite, anche diversamente dall'individuo, ma questa diversità non può dipendere solo da un handicap più o meno grave e soprattutto non dev'essere un ostacolo, spesso discriminatorio. C'è ancora e, temo, ci sarà ancora per parecchio tempo, soprattutto in Italia dove il ritardo culturale sempre più regresso porta ad acquisire i cambiamenti culturali con anni di ritardo, l'abitudine a progettare ingressi con scale e rampe per i disabili che spesso devono percorre molta più strada per trovarsi allo stesso livello degli "altri", l'abitudine ad affidare esclusivamente ai colori determinate informazioni, con buona pace dei daltonici (utilizzo apposta una categoria di disabilità meno invalidante rispetto agli ipovedenti o ai non vedenti) che non saprebbero scegliere fra una ipotetica "Sala Rossa" ed una "Sala Verde", oppure esclusivamente ai suoni (campanelli, citofoni, ecc.). Fare Architettura vuol dire progettare per l'Uomo. E' così che, a distanza di anni dal progetto iniziale (1972), il liceo Ariosto di Ferrara progettato da  Melograni, ha superato brillantemente la "prova" della normativa per l'abbattimento delle barriere architettoniche ed a tutt'oggi risulta essere molto vissuto dagli studenti e percepito non soltanto come luogo di studio, ma anche come luogo di socializzazione, funzione primaria che dovrebbe avere l'istruzione.
A qualcuno può sembrare strano che ne stia parlando, addirittura banale o fuori luogo, ma nelle facoltà di architettura questo argomento, quando non è proprio affrontato, è visto come una parte necessaria, non una parte integrante del corso di studi, tralasciando il problema della vivibilità e della percezione, in un secondo stadio del "pensiero" progettuale con tutte le ovvie conseguenze derivanti.

domenica 4 luglio 2010

Vivere la (in) città

In quest'ultimo periodo ho scritto poco, ma in compenso ho studiato molto.
Di pomeriggio, in queste giornate assolate, dovendo avere le finestre aperte, sono continuamente invaso dai rumori dell'ex-periferia nella quale abito, ex perché lo sviluppo urbano ed il piano del traffico l'hanno ormai inglobata nel centro cittadino. Poco resta delle strade tranquille di una decina di anni fa e poco è possibile fare oggi di quello che si faceva un tempo. C'era chi, nei cortili condominiali, "faceva i pomodori", cioè preparava le conserve, oppure giocava in cortile o nelle strade poco affollate. Cambiano i tempi.
Una cosa però è rimasta, la cui radice va probabilmente cercata in tempi ancora più remoti. Ancora oggi balconi, terrazze e per chi li ha, giardini, vengono utilizzati come una sorta di corte aperta. Gruppi di familiari di tre-quattro-cinque persone spesso con bambini piccoli, usano "prendere il fresco" nelle ore serali, in giardino o sul balcone e, tra una parola e l'altra, osservano il passaggio delle auto o degli anziani con le loro badanti sui marciapiedi: corti private e spesso rialzate. Vociare di bambini, voci di anziani, sedie che si spostano, tintillio di bicchieri con bibite fresche, è questo il suono della vita all'aria aperta, memore di uno stile di vita che fu. Sono infatti le persone più anziane che hanno conservato questa abitudine popolare che una volta, con i loro nonni, praticavano nei cortili paesani e che ancora si ritrova nei paesini e nei villaggi di quella che di fatto è l'area metropolitana di Caserta. Spesso ci si siede sul balcone per leggere un libro, disegnare, dipingere, parlare al telefono.
In città si cerca di ovviare alla mancanza di spazio riutilizzando quegli elementi concepiti più per l'affaccio che per la vita sociale, unendo ambedue le necessità della veduta, del controllo (nel senso di appartenenza) e della comunità.

sabato 24 aprile 2010

Dove sta andando l'Architettura?

Non si sa. Nel frattempo si distrugge quello che ci è stato tramandato e, sia chiaro, sempre più spesso con il beneplacito delle soprintendenze!
Il caso in questione è riferito alla Facoltà di Architettura della Seconda Università di Napoli, la "mia" facoltà, come sentiamo troppo spesso dire in giro da Qualcuno. La sede è ospitata nel chiostro cinquecentesco, nel "Quarto dell'abate" del XVIII secolo, opera di Ferdinando Fuga e nell'ala ottocentesca che di ottocentesco ha solo il nome, dell'Abbazia di San Lorenzo ad Septimum ad Aversa (CE). Da tempo sono cominciati lavori di adeguamento impiantistico e tecnologico, ma sia i progettisti (che NON sono della facoltà) sia gli esecutori, oltre che DL (che NON è della facoltà o se lo è, sarebbe consigliabile non andasse a dirlo in giro) non si sono affatto resi conto di trovarsi in un monumento storico di straordinaria importanza e non in un quartiere di edilizia economica e popolare. Così c'è voluta la richiesta di un docente di restauro affinché non si usasse il martello pneumatico sulle mura settecentesche per realizzare le tracce per gli impianti (impianti sotto traccia, come si usavano vent'anni fa).
Roberto Pane, al quale la Facoltà ha dedicato la biblioteca, scrisse: "La stratificazione è l'essenza stessa dell'architettura" e mi chiedo: perché tutto questo è ampiamente disatteso in un luogo di istruzione d'eccellenza che è una facoltà universitaria soprattutto di architettura? Perché la Soprintendenza di Caserta ha dato il beneplacito alla realizzazione di interventi così invasivi, che poi è la stessa che sta demolendo le basi delle torri federiciane di Capua? Perché non è stato interpellato il dipartimento di restauro che è stato tenuto fuori da tutto? A questo punto, mettiamo gli impianti sotto traccia anche nella Reggia di Caserta visto che, benché le firme siano diverse, le mura sono coeve.
Un altro dei punti chiave del restauro prescrive la compatibilità della rifunzionalizzazione dell'edificio con le preesistenze: se ciò non può avvenire ad Aversa perché non andare altrove? Solo per avere una sede prestigiosa? Ma si avrà oggi, insieme ad un po' di biasimo delle menti più sensibili, fra trecento anni, un restauratore potrebbe scrivere saggi interi "sui premiscelati usati da Fuga e sui siporex stratificati" (questa non è mia, ma la faccio mia).

Qualche immagine tanto per gradire: Set su Flickr

venerdì 19 marzo 2010

"Architettura italiana sotto il Fascismo - L'orgoglio della modestia contro la retorica monumentale 1926-1945"

Il mio articolo (ormai vecchio di quasi due anni) su Carlo Melograni ha avuto per me un risvolto piacevole: il professore, dopo averlo letto, mi ha contattato telefonicamente (il mio numero di casa lo avrà avuto da un angelo, che so...) per ringraziarmi e per informarmi che mi avrebbe fatto dono di un suo libro. A dire il vero avevo già messo fra i desiderata il titolo in oggetto e per mia immensa fortuna è stato proprio questo il dono inviatomi.
Il titolo sembrerebbe annunciare un altro testo di storia dell'architettura di un periodo controverso della storia italiana, ma il sottotitolo ne da un indirizzo nuovo e la dedica a Terragni e Banfi, Beltrami, Giolli, Labò e Pagano, lascia intuire contenuti nient'affatto usuali. Un libro che è "un resoconto dell'architettura italiana durante venti anni", quei venti anni, scritto da un architetto non da uno storico, libero dunque del tipico stile da "librone" e più propenso, vista anche la lunga attività professionale dell'Autore, alla comprensione dei fattori umani e sociali che hanno guidato le scelte progettuali, spesso scaturite da incarichi di "ripiego".
Il resoconto è un tutt'uno dall'inizio alla fine. La premessa pone le basi, i capitoli intermedi raccontano, con parole chiare, gli entusiasmi e le difficoltà dei giovani laureati nelle neonate facoltà di architettura, i concorsi pubblici ed i progetti, le sperimentazioni (sembra quasi di vederli, giovani alle prese con i primi progetti, buttare giù schizzi, disegnare, realizzare tavole, rifarle daccapo, producendo comunque architettura), gli imperdonabili sventramenti e le irreparabili distruzioni degli ambienti monumentali sulla base della falsa retorica della rinascita della Roma Imperiale con la conseguente caduta delle loro illusioni. Non c'è mai, in tutto il testo, una presa di posizione da parte dell'Autore, che lascia, invece che i "suoi" personaggi parlino da soli. Sono moltissime, infatti, anche le citazioni, soprattutto di Pagano e Persico, due figure di grandissimo livello allora che hanno lasciato un'eredità di pensieri, molto spesso drammaticamente lungimiranti, che li rendono attuali anche ad oltre sessant'anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (per Persico, troppo prematuramente scomparso nel '36, addirittura di anni ne sono passati di più, ma è fin troppo attuale perché lo si lasci, oggi, colpevolmente dimenticato). Emergono, continui, l'entusiasmo prima e lo scontro dialettico poi, gli slanci e le delusioni, gli sforzi di chi cercava una vera nuova architettura e chi si limitava a proporre uno stile di regime più consono alla crescita della "collezione" di incarichi ufficiali.
Le pagine finali presentano una sorta di bilancio, raccontando brevemente, così come sono state le loro vite, le sorti dei nomi più importanti dell'architettura italiana, della profonda crisi di Terragni dovuta agli orrori della guerra ed alle delusioni del Fascismo nel quale aveva sempre creduto e della sua scomparsa a quarantun anni, della definitiva rinuncia ai fasci del colonnello Pagano, dei suoi contatti con i partigiani, dell'arresto e della disperazione nella sua cella, rilevata e schizzata, pensandone anche una trasformazione in abitazione e della successiva fine a Melch dopo essere transitato per Mauthausen (mica da casa sua!), della misera fine di Giorgio Labò fucilato mentre il padre lo cercava disperatamente da quattro giorni, della scomparsa di Gian Luigi Banfi a Gusen e del progetto dei BBPR (i suoi amici non vollero mai togliere la prima B dal nome del gruppo) e realizzazione del monumento, trionfo dell'antiretorica, ai caduti nei campi di sterminio. E' questa umanità che rende diverso ed unico questo testo: non solo la mera storiografia in sé, ma anche e forse soprattutto, il lato umano, raccontato con lo stile di una lunga conversazione.
Ma il testo si chiude con alcune considerazioni finali che, partendo dalle esperienze degli anni della ricostruzione, spiega come, una malintesa specificità disciplinare non abbia consentito di apprendere la lezione del disegno dell'oggetto d'uso quotidiano, strettamente connesso con la progettazione architettonica e urbana e legato ai bisogni ed ai desideri di vita di tutti i giorni, e di tradurlo in progetti di scala più grande nei quali, poi, è lentamente, ma inesorabilmente, scomparsa la centralità dell'uomo.

giovedì 21 gennaio 2010

StreetView: una voce controcorrente

Si è fatto un gran parlare in passato e se ne fa ancora di StreetView e delle ripercussioni sulla privacy. Qualcuno ha anche azzardato definendolo un servizio inutile. Tralasciando le implicazioni legali che un servizio del genere naturalmente produce, io personalmente dico che non solo non è inutile, ma è anzi utilissimo. Fermo restando che l'ideale sarebbe visitare i luoghi in prima persona e non affidarsi esclusivamente a strumenti esterni (foto e video in primis), è anche vero, però, che non sempre si ha il tempo (leggi: possibilità economica) di intraprendere lunghi viaggi. Allora l'unica soluzione è vedere questi luoghi immaginando di esserci davvero e magari sognare un giorno di andarci veramente, costruendosi anche un itinerario turistico personalizzato.
Con questo sistema posso dire di "essere stato" sul Golden Gate, ma anche nelle città minori americane, così come nei quartieri e nelle stradine strette di Tokyo, Kyoto o Kobe, di aver "visto da vicino" l'Opera House di Sidney. Non è come averli visto dal vivo, ma almeno ho un'idea di come si inseriscono determinate opere nell'ambiente urbano o naturale, in special modo il sistema dei neighborhood (in inglese) americani ed inglesi, interessanti dal punto di vista urbanistico e sociale