giovedì 18 agosto 2011

Autoritratto sanguigno

Penso che per eseguire un Restauro bisogna essere architetti due volte.
In prima istanza, per colui che si accinge ad operare su un bene, sia esso un "rudero", un monumento, un edificio cosiddetto appartenente all'"edilizia minore" che poi è quella più interessante sia dal punto di vista delle tecniche costruttive, sia per il fatto che rappresenta la testimonianza più diretta e viva della società che l'ha prodotta, è necessario che ne comprenda la storia, la materia, le forme, le stratificazioni. La parte tecnica dell'intervento, rilievo materico e del degrado, fa parte (o dovrebbe far parte) del bagaglio culturale dell'architetto. In questa istanza vanno inclusi per forza anche il tracciato o i tracciati urbani formati dall'opera o che hanno formato l'opera. I due elementi sono quindi inscindibili e non si può parlare di architettura senza considerarne la sua essenza urbana.
In seconda istanza, una volta conosciuta l'opera, è necessario riprogettarla, sia nel caso di solo consolidamento, sia nel caso di rifunzionalizzazione, sia nel caso di ripristino della funzione, operazioni che vanno compiute sempre ed esclusivamente tenendo sempre a mente che lo scopo del restauro è la conservazione della materia. Il cantiere di restauro non può essere affidato a Mastu Lisandro o all'impresa del nipote del sindaco, ma ad una seria "bottega" specializzata se non esclusivamente (oggi camperebbe poco), almeno per la maggior parte in opere di restauro, con nel libro paga maestranze e tecnici di alta specializzazione.
Se non ci fossero le soprintendenze o, meglio, i soprintendenti senza esame di restauro alle spalle, tutto quanto detto non sarebbe soltanto l'ideale accademico, ma la prassi. Non è "tutta una questione di soldi", almeno non solo, benché un cantiere di restauro costi più di un cantiere di edilizia comune (il cantiere di architettura ha un costo diverso che si pone a metà e spesso supera quello di restauro). Il problema è, però, anche politico. Un anno fa i crolli di Pompei, già pesantemente in degrado a causa sia dell'incuria e della mancanza di fondi, sia dei troppi turisti che affollano quotidianamente il parco. Un po' di tempo prima era però avvenuto un crollo anche nel Castello di Carlo V, che poi è una fortezza, di Capua del XV secolo che aveva interessato la copertua di alcuni locali lungo la cortina sud, evento passato in sordina perché l'area è zona militare (c'è il Pirotecnico fin dal tempo dei Borboni, istituzione, quindi, già storicizzata). Ancora prima i crolli di Noto e della sua cattedrale barocca, ricostruita come se fosse un Lego, con dubbi risultati. Di oggi la notizia di un cedimento al complesso arabo-normanno di Monreale.  Invece, a tenere banco è la "querelle" fra le istituzioni politiche nazionali, regionali e provinciali del Piemonte, del Comune di Torino, l'Istituto di patologia del Libro ed il professor Tullio Gregory del Comitato tecnico scientifico ai beni librari, riguardo il celeberrimo Autoritratto di Leonardo da Vinci che si vorrebbe esporre alla reggia di Venaria Reale contro il parere proprio di Gregory. La notizia, che poi è una sottile polemica contro l'unico derelitto che non vuole proprio piegarsi alla retorica del "diritto all'usufruizione", da la testimonianza diretta di quanta scarsa cultura sia impregnata la politica italiana e di quanto sia facilmente influenzabile "l'opinione pubblica". E' vero anche che il disegno leonardesco non è esposto al pubblico perché di delicata costituzione materica e quindi conservazione, ed è conservato al chiuso, ma è vero pure che nessun governo, Ministro o assesssore alla Cultura, si è mai prodigato affinché l'oggetto fosse esposto garantendone la conservazione nel migliore degli ambienti come per la Sacra Sindone sempre a Torino o la mummia Oetzi. Sono scarse poi le rassicurazioni dell'assessore regionale alla cultura Coppola riguardanti le "precauzioni di sicurezza" perché la paura di un furto, in questo caso, è proprio l'ultima delle preoccupazioni (chi è che può vantare un originale di Leonardo in casa?) anche perché i sistemi antirapina dovrebbero essere intrinseci e sottintesi. Si sta parlando di un bene comune, non italiano, ma dell'umanità intera, trattato dalla politica come arma demagogica per mostrare la buona volontà di fare di fronte ai propri elettori (si, elettori, non cittadini, cioè numeri più che persone). Il cosiddetto "diritto all'usufruizione" dell'opera d'arte non deve scontrarsi con l'opera d'arte stessa, non deve cioè diventare il fine ultimo della conservazione, ma uno degli elementi da prendere in considerazione soprattutto quando l'oggetto da esporre (o da usufruire quando si tratta di edifici) è troppo delicato. Quel disegno andrà tolto dal contenitore che lo conserva, spostato in un altro contenitore per il trasporto, trasportato in un altro luogo, aperto il contenitore, posto il disegno nella teca prevista: per un oggetto che ha quasi seicento anni, mi pare un po' troppo ed i rischi di un danneggiamento sono troppo alti. Anche un piccolo pezzettino di materia distrutto non potrà essere consegnato ai posteri e se ai più sembrerà un'inezia, basterà sapere che più materia si perde, maggiore è il rischio di distruggere l'intero oggetto, così "ai nostri figli" tramanderemo polvere come i libri del film "L'uomo che visse nel futuro".