mercoledì 23 ottobre 2013

Caserta (non è) città d'arte

"Città d'arte" è una delle tante definizioni partorite dall'arte e dall'architettura e poi immediatamente disconosciuta perché priva di significato, prima che di fondamento scientifico. Una città d'arte, secondo i palati più fini della politica e quindi dell'opinione pubblica, starebbe a significare una città nella quale si trova un'alta concentrazione di edifici e opere d'arte di grande interesse culturale non solo nazionale. Sono città d'arte le evergreen Venezia, Firenze, Roma, Ferrara, Napoli, Padova, ecc. Tutte le altre città, sono semplicemente città. A seguito di questo fenomeno più folcloristico che storico, le città con qualche monumento importante, come Caserta, aspirano a diventare esse stesse città d'arte per attivare il turismo oltre il monumento. Creato l'equivoco sul nulla, bisogna riempirne il fondo per tenerlo in piedi e allora, da un po' di tempo, fra i casertani è invalsa l'idea che il rilancio del turismo oltre la Reggia, parta dall'apertura di negozi di souvenir e chincaglierie del turista mordi-e-fuggi-con-le-scuole-basse, l'attivazione di navette tra i parcheggi e la Reggia e il recupero del centro storico per i turisti. Purtroppo i casertani sono i primi a non conoscere la propria città, perché non si studia nelle scuole e perché la storia di Caserta sembra essere cominciata con la costruzione della Reggia di Caserta, unico monumento della città (insieme al Belvedere) considerato tale.
La storia di Caserta, in realtà, è molto più antica, non è gloriosa come quelle di Capua vetere e Capua nova, ma è una storia da più parti dimenticata e che spiega tante cose che i casertani accettano come l'anatroccolo appena schiuso dall'uovo. Il primo nucleo abitato risale ai sanniti dei quali si sono trovate delle tombe a cassa in quelli che oggi sono i sotterranei della Reggia e dei quali era a conoscenza anche Vanvitelli, visto che una tomba è attraversata da un muro di fondazione. Fu aperto un museo dell'opera una ventina di anni fa e fu pure chiuso. Un secondo nucleo abitato stabilmente è quello della cosiddetta Casa Hirta su una collina sulla quale si rifugiarono il vescovo di Calatia (Maddaloni) e tutta la sua corte con alcuni abitanti per sfuggire alle incursioni provenienti da Napoli intorno al IX secolo d.C.. Intanto il borgo si ingrandiva, veniva costruita una cattedrale con annesso seminario e, in pianura, una torre di avvistamento. Nel corso degli anni accanto a questa torre fu costruito un primo edificio per ospitare chi nella torre prestava servizio. Intanto nella piazza antistante cominciò a svolgersi un mercato di viveri e tutt'intorno a questo spazio furono costruiti edifici per ospitare mercanti, ma anche truppe e cittadini: era il Villaggio Torre, il primo nucleo della Caserta attuale, rintracciabile in pieno nell'odierna Piazza Vanvitelli, con edificio e torre (Prefettura e Questura) incluse. Intanto nei dintorni il villaggio si allargava, furono costruire un paio di chiese nei dintorni (oggi Via Redentore) e anche il Vescovo cominciò a scendere in pianura non solo per presenziare alle vendite, ma anche per gestire i propri interessi. Gli fu costruito un alloggio grandicello in località Falciano con allegata chiesa e celle per ospitare il suo seguito quando non facevano ritorno a Casa Hirta. Vista poi la difficoltà di raggiungere la collina a dorso di mulo (spesso si cadeva e ci si rimettevano le auguste penne), il vescovo decise di fermarsi in pianura e di spostarvici la sede vescovile nel nuovo palazzo, oggi ex-Caserma Sacchi, davanti alla quale si apriva un grosso spazio prima incolto poi più curato (ex-Ma.Cri.Co). Casa Hirta traslitterò in Casa Erta e poi in Caserta, ma indicò il villaggio in pianura, non più quello in collina che divenne Caserta Vecchia (oggi Casertavecchia). Intanto Caserta si espandeva sotto i Della Ratta prima e gli Acquaviva poi. Il palazzo accanto alla torre divenne reggia e la inglobò, il mercato continuò a svolgersi allo stesso luogo fino agli inizi del XX secolo, furono fondate alcune chiese fra le quale quella detta di Montevergine alla fine di una delle pochissime strade storiche di Caserta, residuato, cioè delle mulattiere precedenti all'insediamento urbano. Arrivano i Borbone, costruiscono la Reggia, presentano un piano mai attuato per fine dinastia, viene eretto un palazzo signorile di un funzionario di corte, Palazzo Paternò nella strada di cui sopra. Arriva l'Unità d'Italia, le due guerre, i monumenti ai caduti, i bombardamenti e si arriva alla lenta, stanca e borghese città attuale. Il mercato oggi si svolge in un luogo fuori-luogo, appositamente costruito, un deserto di asfalto malamente occupato solo due volte a settimana dopo essere stato sfrattato, anche per questioni di ordine pubblico, dalle strade della città. Il motivo dell'importanza del mercato di Caserta è quindi rintracciabile al primo insediamento in pianura, a quasi mille anni fa, tanto per essere un po' esagerati.
In questo brevissimo e sicuramente non precisissimo excursus storico, appare evidente che non ci sono palazzi signorili, oltre il citato Paternò, o monumenti di grande interesse storico-culturale che convincano il turista a restare più di un giorno. Nei piani Borbonici Caserta doveva diventare capitale, ma è rimasta quella che è, provinciale e benché ci si sforzi, in città non esistono luoghi di interesse tale da andare aldilà della storia locale pur importante, ma inutile se circoscritta esclusivamente al luogo. Va anche considerato che se Caserta non avesse un grosso agglomerato urbano, sarebbe un comune sparso con le tante frazioni, alcune inglobate nell'urbe, tutte residuati di insediamenti rurali più antichi (alcuni risalgono ai Longobardi) via via più vicini all'Hirta e alla pianura. Alcune di queste frazioni contengono preziosi palazzi le cui edificazioni vanno dal X al XIX secolo, alcune con caratteristiche peculiari come le cosiddette "collere" di Casolla. Purtroppo si tende a considerare Caserta come città a sé e le frazioni come altro, tant'è vero che è ancora in uso il modo di dire "vado a Caserta" anche se ci si deve spostare nella stessa città. E' questo scollamento fra le due identità che in realtà sono unica cosa essendo la città attuale la somma degli addendi precedenti, che non fa comprendere ai casertani in primis che il turismo stanziale, a Caserta, è difficile se non è accompagnato da iniziative culturali che vanno aldilà dell'ammennicolo in plastica, perché il turista che arriva apposta per vedere la Reggia ha sicuramente il potere economico e il diritto di acquistare un prodotto non come ricordo affettivo, ma come accrescimento culturale. Ad un francese, un americano, un giapponese o ad un cinese, cosa si potrà offrire oltre la Reggia? Se le amministrazioni comunali che si sono succedute in tutti questi anni, cioè dall'elezione diretta del sindaco, non si fossero preoccupate solo di restaurare il Belvedere di San Leucio (che ne aveva ben donde) per farsi belli durante gli eventi organizzati, oggi a Casertavecchia non ci sarebbero il vuoto e la desolazione, le frazioni sarebbero molto più di una semplice indicazione toponomastica, i palazzi gentilizi non sarebbero un ostacolo alla circolazione delle auto in entrambi i sensi, l'ex-Caserma Sacchi non sarebbe esclusivamente un contenitore di uffici comunali così come il parco del Ma.Cri.Co non sarebbe una selva oscura, per anni gestita malamente dalla Curia... e soprattutto la biblioteca comunale, non funzionerebbe come una prostituta cioè a ore (sic!) e non avrebbe fatto l'ultima acquisizione vent'anni fa. Sopratutto nessuno avrebbe il tempo materiale per pensare alla teleferica, perché anche a questo si è pensato!

giovedì 11 aprile 2013

Progettare per chi va in tram

Prendendo spunto da un breve corsivo di Edoardo Persico, Carlo Melograni così intitola un 'piccolo prontuario' sul mestiere di architetto edito da Bruno Mondadori nel 2002. Un testo breve, scorrevole, pratico da leggere, nel quale sono contenuti i bilanci, non per forza negativi e fallimentari, del Movimento Moderno. Attraverso la sua esperienza di architetto, tra teoria e pratica, Melograni spiega come quello dell'architetto sia un mestiere chiamato a contribuire a migliorare le condizioni dell'abitare, non tanto per una classe d'élite che, tutto sommato, potendo far leva su un benessere economico più che elevato, può formare sui propri bisogni, la casa in cui vive, ma su quello 'strato' di popolazione, sempre più numeroso, che non ne ha le possibilità se non limitate alla diversa disposizione dell'arredo o al riutilizzo di spazi accessori per meglio riporre le proprie cose e vivere dignitosamente. Questi sono i viaggiatori in tram (in questo senso ne auspico, personalmente, un maggiore utilizzo, in sostituzione dell'automobile), studenti, operai, impiegati, aggiungo io, piccoli negozianti e artigiani, per i quali gli architetti, secondo una prassi positivista che vedo ancora attuale, prepareranno le case, ma anche gli uffici, i negozi, le botteghe, i luoghi dell'istruzione. Portare avanti queste idee in un tempo in così rapida trasformazioni, nel quale, spesso, i mesi si riducono in settimane, non è cosa facile, ma non è impossibile. Melograni suggerisce allora una possibile soluzione, un 'adagio' oggi spesso criticato di obsolescenza: dal cucchiaio alla città. Non una forma di pan-architettura, nella quale l'architetto progetta la città intera fino a scendere nel dettaglio più infinitesimo che è il cucchiaio da cucina, ma l'approccio del disegno industriale nel quale l'oggetto ha la sua bellezza nella forma della sua funzione: appunto il cucchiaio con la forma concava dell'incavo per meglio adattarsi all'anatomia della bocca, agevolata dal manico leggermente curvo. Così in architettura si dovrebbe badare alla funzione dei vari elementi dell'edificio per meglio adattarsi ai bisogni dell'essere umano che vi abiterà per poche ore al giorno o per tutto il giorno, per facilitare il riposo, la lettura, lo studio, il lavoro, la vita famigliare o lavorativa, dove la forma è modellata sull'uso. Allo stesso modo del disegno industriale, ma con la sensibilità di adattarne il disegno al luogo e, non ultime, alle normative, anche in architettura le soluzioni trovate in precedenza, possono essere riutilizzate, senza effettuarne copia conforme, ma studiandone a fondo i contenuti per riscoprirli e reinventarli, in un gioco nient'affatto superficiale. Una progettazione per elementi componibili dove la fredda serialità commerciale è sostituita dall'economia della progettazione. Queste però, come dice lo stesso Melograni, "sono armi a doppio taglio, capaci di produrre effetti positivi e negativi. Farne buon uso è responsabilità di chi progetta. Anche per l'architetto si pongono scelte in alternativa tra modernità e modernizzazione".

mercoledì 27 febbraio 2013

Abilitato: e ora?

A giochi fatti (l'abilitazione è ormai in tasca benché indossi un paio di calzoni che ne è privo) è giunto il momento di chiedermi che architetto sarò e, soprattutto, se sarò realmente un architetto. I titoli fanno il professionista, secondo le norme italiane, ma non donano automaticamente la sapienza del mestiere e soprattutto non dicono nulla sul suo pensiero, sulle sue inclinazioni, sulla sua cultura, sulla sua sensibilità.
Il mio pensiero ricorrente, formatosi negli anni in cui mi occupavo di programmazione web, precisamente di usabilità e accessibilità dei siti, quando la legge Stanca non esisteva ancora, è che l'architettura (all'epoca il sito web) deve essere accessibile a tutti, qualsiasi disabilità egli abbia, concetto che ho dichiarato per la prima volta in sede di discussione tesi. Proprio per dare a chiunque la possibilità di 'usare' l'architettura, è necessario che il progetto nasca già con l'idea di base che chiunque se ne possa servire liberamente. Sembra banale, ma in troppi edifici, anche di nuova progettazione dove la legge sull'abbattimento delle barriere architettoniche non è un valore aggiunto, ma un vincolo necessario all'approvazione amministrativa, si vedono rampe per disabili relegate negli angoli o raggiungibili con il doppio del cammino, questo perché si considerano utilizzabili solo da chi sta in carrozzella, quando invece è molto più probabile che la utilizzi un anziano con il bastone o un un bel giovane con una gamba rotta e le stampelle. Ed accade anche quando si tengono in secondo piano coloro ai quali è indirizzata l'opera rispetto alla valenza formale ed estetica e si realizzano scaloni per superare grandi altezze, relegando gli ascensori in un angolo nascosto, quasi a voler celare una situazione fisica che si crede imbarazzante. Il concetto di 'rete-umana' e di 'web-accessibility' è stato alla base del progetto di tesi: non vuole essere una mera autocitazione, ma un riprendere le fila di un discorso in embrione.

L'architettura deve 'servire', deve essere 'utile' e deve 'funzionare'. Il funzionalismo cieco degli anni '60 teneva in considerazione solo l'ultimo di questi aspetti ed i risultati erano già sotto gli occhi di tutti e sono diventati drammatici nel corso degli anni. Un esempio che mi viene al momento è quello della stazione ferroviaria di Napoli Centrale: un poligono irregolare gettato in una piazza, funzionale solo a se stesso - come stazione ferroviaria appunto - cupo e desolato. Nel corso degli anni ha subito delle integrazioni, ma solo negli ultimi dieci anni sta cercando di entrare di più nella città, riscattandosi dal ruolo primigenio di confine fra dentro-Napoli e fuori-Napoli.
A chi serve l'architettura? A chi la utilizza prima di tutto, sempre che funzioni. Ancora la stazione di Napoli può essere presa ad esempio. Prima dei lavori di ammodernamento, in stazione si andava esclusivamente per prendere il treno. Era un passaggio rapido dal marciapiede di Piazza Garibaldi (dentro-Napoli) al marciapiede del binario (fuori-Napoli), giocando il solo ruolo di intermediario fra la situazione di pedone e quella di passeggero. Chi serve? La risposta non è unica: serve chi la richiede (prendere il treno), chi non l'ha richiesta (non prendere il treno) e chi l'avrebbe richiesta (prenderebbe il treno). In definitiva serve i passeggeri, ma serve o deve servire anche chi il treno non deve prenderlo.
Infine, l'architettura è utile quando 'funziona' e 'serve' nel senso di servizio, ma anche di utilità. Un discorso ricorsivo apparentemente banale, ma basti pensare a cosa possa essere la stazione di Napoli se funzionasse a dovere, servisse alla grande, ma fosse inutile perché nessuno prendesse il treno, preferendo altri mezzi di trasporto o perché altre stazioni già assolvono egregiamente il loro compito e la Centrale fosse solo un sovrappiù. Utile è anche quando non è solo un passaggio, ma un luogo di incontro, di sosta o di meta finale. Librerie, servizi, esposizioni, installazioni, spazi per concerti, luoghi di riunione, sono solo una parte delle numerose possibilità che può offrire un'architettura pensata e realizzata per soddisfare altri bisogni. Nel caso della stazione, poi, l'incontro breve o il semplice passaggio, può essere facilitato dai servizi esistenti (bar, ma anche sale di incontro/discussione/attesa). Non un semplice luogo di passaggio quindi, ma di piena vitalità urbana.
Questa è solo una prima base del mio pensiero sull'architettura che è ancora in costruzione, basato già su alcuni punti fermi. Mi tocca costruirci intorno un discorso per il quale sto già cercando i vocaboli giusti.

P.S.
Ammetto di essere 'vagamente' vitruviano

giovedì 3 gennaio 2013

Apro la finestra per cambiare l'aria

Rileggendo i vecchi post, ho notato un filo di discussione continuo. L'idea di base del, per così dire, 'vecchio blog', era quella di parlare dei problemi dell'università italiana, in particolare della facoltà che ho frequentato. Mi sono accorto che così non è stato, anzi, lo è stato poche volte, solo all'inizio. In realtà ho sempre parlato di architettura ponendomi dubbi e cercando di darmi risposte andandomele a cercare nelle letture, partecipando alle discussioni, confrontandomi con i colleghi all'università, chiedendo ai docenti. Ho deciso di continuare il discorso su questo blog senza chiuderlo per aprirne un altro, perché il mio discorso sull'architettura è più vecchio del blog stesso, nato poco prima dell'iscrizione all'università e non poteva fermarsi con la proclamazione.
Allora perché il sottotitolo 'Un architetto che parla anche di architettura?!'? Perché oggi gli architetti non ne parlano ed, essendo numericamente tantissimi, è come se non ne parlasse nessuno. Perché l'architettura, sia essa ottima, buona, mediocre, pessima o semplicemente edilizia, è inevitabile. Perché, soprattutto, l'architettura non si nutre di se stessa, non è, per sua natura, cannibale. Tanti sono gli influssi, le suggestioni, le conoscenze, i pensieri e le ideologie che la nutrono, che concorrono, cioè, a formare il pensiero dell'architetto. Perché l'architettura può essere un gesto umile o presuntuoso, pretestuoso o discreto, culturalmente elevato o infimo e i gesti non sono fatti a sé stanti, ma derivano dalla cultura e dalla sensibilità del singolo che può essere più o meno arricchita a seconda della disponibilità ad accettare di porsi nuove domande cercando ancora più nuove risposte.
Non parlerò, quindi, solo di architettura, ma anche di altri 'fatti', prenderò spunto dalla critica, dalla storia, dall'attualità architettonica, dalla pratica edilizia, dalle notizie giornalistiche, dall'arte, dal design, dal cinema, dal caso. Cioè farò quello che facevo anche prima, sperando però di essere più presente, con la sola differenza che adesso l'ho dichiarato apertamente.