lunedì 1 novembre 2021

Carlo Melograni (1924-2021)

Riprendo a scrivere sul blog perché ritengo sia doveroso farlo.

Oggi, 1 novembre 2021, ho avuto la brutta notizia della morte del prof. Carlo Melograni.

Ho parlato di lui quasi subito, nel quarto post di questo blog, presentandolo come "Architetto rassicurante", fatto che ha avuto quale esito inatteso la telefonata di ringraziamento di Melograni che mi preannunciava anche di avermi fatto dono di un suo libro.

Ne ho parlato ancora quando ho umilmente recensito il libro che mi aveva inviato con la sua preziosa dedica.

Oggi è venuto a mancare alla veneranda età di 97 anni nella sua Roma che lo ha visto nascere l'11 gennaio del 1924 e che ha contribuito, nel suo piccolo, a liberare dai nazifascisti. 

Non parlava spesso della sua militanza giovanile nella Resistenza e quando lo ha fatto, è stato sempre in maniera sommessa. Ne accenna implicitamente parlando brevemente del giovanissimo architetto Giorgio Labò in "Architettura italiana sotto il Fascismo" raccontando del dolore del padre che dopo averlo cercato ininterrottamente e pericolosamente per quattro giorni, scopre all'alba del quinto che suo figlio era stato fucilato due giorni prima. Per questo Melograni scelse di far parte della formazione della Resistenza nella quale aveva militato anche Labò. Fino ad oggi ne è stato l'ultimo testimone.

Forse per la sua indole innata, forse per le passioni giovanili, forse per il suo passatto di combattente per il popolo, Carlo Melograni architetto ha avuto sempre l'occhio rivolto a coloro che gli edifici li abitano. La sua non era un'architettura votata a stupire, a elaborare forme inedite, a cambiare il verso della Storia, ma un'architettura attenta al modo di abitare, un'"architettura civile", per dirla con Bruno Zevi che definiva così l'architettura di Giuseppe Pagano.

E proprio a Pagano è dedicato il primo scritto di Melograni, edito nel 1955 dalla casa editrice "Il balcone", un racconto, con molte foto, dell'architettura dell'istriano, prima fascista critico, poi allontanatosi per l'inconciliabilità delle sue idee civili con quelle fasciste e infine, per un casuale incidente, arrestato dalla milizia mussoliniana e da questa consegnato ai nazisti che lo deportarono a Mauthausen dove trovò la morte non prima di aver rilevato e ridisegnato la cella nella quale era imprigionato, segno evidente che stavano per uccidere un uomo, ma non il suo spirito. 

Ma Melograni amava anche Edoardo Persico e ispirandosi a lui e ad una citazione presa da un suo articolo, decise  di scrivere, dopo tanti anni, una volta raggiunta la pensione non prima di aver contribuito a fondare la Facoltà di Architettura di Roma Tre dove fu preside fino al 1997, un libro intitolato "Progettare per chi va in tram. Il mestiere dell'architetto" (2002, Bruno Mondadori), recentemente ristampato. Si tratta della risistemazione e della messa per iscritto di alcune lezioni da lui tenute durante i vari corsi universitari che lo hanno visto docente. Dal testo si percepiscono due fattori fondamentali: l'amore per l'architettura e l'amore per gli studenti. 

Altri due testi seguono questo, prodromo dell'esplicitazione del pensiero melograniano e sono il già menzionato "Architettura italiana sotto il Fascismo. L'orgoglio della modestia contro la retorica monumentale. 19267-1945" (2008, Bollati Boringhieri) e il più corposo di tutti "Architetture nell'Italia della ricostruzione. Modernità versus modernizzazione 1945-1960" (2015, Quodlibet), che segue il precedente sul tema dell'architettura razionalista e della sua evoluzione fino agli ultimi fuochi.

In tutti i suoi testi Melograni parla da testimone diretto degli eventi architettonici che vanno dal 1926 al 1960, in parte perché raccolti dalle testimonianze dirette e dagli insegnamenti degli autori stessi, nella maggioranza dei casi da lui personalmente conosciuti, in parte per aver partecipato in prima persona alla ricostruzione degli anni '50 del XX secolo, come ad esempio al Tiburtino con Quaroni e Ridolfi nel quale ebbe un ruolo di progettista di non poco conto.

Ma Melograni ha sempre scritto di altri, mai di sé stesso. Per conoscere qualcosa di lui era necessario seguire una delle sue numerose "conversazioni" nelle quali parlava delle sue opere per fini meramente didattici, spiegando ai futuri architetti come nasceva un'architettura e quali fattori erano implicati nella genesi. 

È così che ho sentito parlare del Liceo Ariosto di Ferrara, lo stesso frequentato da Giorgio Bassani, teatro suo malgrado di una delle tante ignobili epurazioni fasciste. Parlò del progetto principale, di come abbia tratto ispirazione da progetti e elementi già costruiti, di come il pensiero pedagogico abbia influito nell'elaborazione e di come fosse confluito nel segno sulla carta. Insegnò che non era sbagliato riprendere un elemento già progettato e costruito altrove se questo rientrava perfettamente nel progetto sul quale si stava lavorando. 

Quando fu chiamato per l'ampliamento del Liceo per il quale ideò un nuovo ingresso pedonale e carrabile, raccontò che lo divertì molto il fatto che una trave che aveva intenzionalmente lasciato a vista in un'area comune, era stata dipinta con i colori delle bandiere del mondo in occasione di un'attività didattica del Liceo. Confessò che non era a favore di ridipinture o graffittature per coprire superfici di cemento o di intonaco, ma gli piacque l'idea che quella trave fosse stata utilizzata a scopo didattico, il che dimostrava ancora una volta che la sua intera architettura era stata utilizzata per il suo scopo primigenio: l'insegnamento.

Ha amato Ferrara e ha amato anche il Liceo Ariosto tanto da aver richiesto nel 2016 che le sue ceneri potessero riposare nel giardino del Liceo, dove ogni anno, nuovi studenti, si prepareranno alla vita, fra le mura progettate per loro da un Uomo che li amava senza conoscerli.

lunedì 23 novembre 2020

Fate presto


"Mamma, il lampadario balla"
"E lascialo ballare..."
Così mi rispose mia madre quella sera del 23 novembre 1980 mentre infilava il pigiama a me bambino di 4 anni, steso sul lettino. Poi, all'improvviso, mio padre gridò dalla cucina:
"Bri' (Brigida), Bri'! Curri!" (Brigida, Brigida! Corri!)
Mia madre la prese come la solita chiamata che le faceva per farle guardare qualcosa di interessante alla televisione, soprattutto servizi al Tg, tant'è vero che gli rispose candidamente:
"Aspié! Stongo a mettere 'u piggiama 'o criaturo!" (Aspetta! Sto mettendo il pigiama al bambino!)
"Bri', sta a fa 'u tarramoto!" (Brigida, sta facendo il terremoto!)
Quello che ricordo del momento in cui mia madre prese coscienza di quello che stava accadendo è che mi ritrovai in braccio a lei nell'ingresso del nostro appartamento dove c'era già mio padre con mia sorella di 2 anni in braccio e poi giù a capofitto per le scale; e per fortuna abitavamo (e abitiamo) al primo e ultimo piano del condominio. Poi ricordo che misero me e mia sorella in auto, una Opel Kadett grigio topo, da dove vedevo altra gente correre per strada morta di paura. Quando anche mia madre si mise in auto le chiesi cosa fosse il terremoto e lei mi rispose:
"Se ne cadono le case!"
Mi misi a guardare casa mia in attesa che questo terremoto la facesse crollare: me la vedevo "scarrupata" pietra per pietra e immaginavo queste pietre quadrate e rettangolari, tutte squadrate, rotolare l'una sull'altra, rimbalzando, fino a far scomparire la casa in un cumulo di pietre; pietre di tufo come quelle del muro di recinzione del condominio e di tutti gli altri condomini del mio quartiere costruito dall'INA Casa fra metà anni '50 e inizi anni '60.
Subito dopo, anche mio padre entrò in auto perché insieme ai miei zii che abitavano (e ancora abitano) nel mio stesso condominio, ma in un'altra scala, decisero di spostarci in un'area allora campestre a Casagiove, nell'attuale Via Madonna di Pompei. Mia madre, che allora fumava, confessò l'esigenza a mio padre chiedendogli di andarle a prendere la borsa con le sigarette e i giubbotti mio e di mia sorella. Mio padre le rispose che, presa dalla foga di fuggire, non si era accorta che passando nell'ingresso aveva di fatto svaligiato l'intero attaccapanni, prendendo borsa, giubbotti, sciarpe, cappelli e anche un ombrello, il tutto mentre aveva me in braccio.
Arrivati nel luogo campestre, raggiunti anche dagli zii e dai cugini e dove trovammo anche altre persone, comiciò subito a girare la voce che avremmo passato la notte in auto. Uno dei miei cugini, per rassicurarmi, mi disse che avremmo acceso anche il fuoco come facevano gli indiani del West, così, quando passò la paura e si decise di ritornare a casa, non volevo andarmene perché volevo accendere questo fuoco, ma non ci fu verso e ritornammo tutti a casa.
Non accadde nulla, né a noi, né alle nostre case. Ricordo che qualche tempo dopo vennero delle persone che mio padre disse (a mia madre) essere del Genio Civile. Uno di loro diede due martellate al soffitto in un punto in cui c'era una fessura nell'intonaco mettendo a nudo il laterizio del solaio e disse a mio padre che non c'erano problemi. Almeno per noi non ci furono problemi, però le ricordo bene le immagini terribili ai Tg delle "case cadute" a causa del terremoto, anzi ricordo solo le pietre, le case non ero in grado di riconoscerle.
Dopo 5-6 anni, andai con mio padre per una "missione" per la Regione Campania (era impiegato presso il Servizio del Personale della Regione Campania) a Sant'Angelo dei Lombardi, uno dei centri più martoriati dal terremoto. Ricordo benissimo che, appena giunti alle prime case, c'erano ancora i container, le macerie da rimuovere, le case crollate, e quelli che avendo una disponibilità finanziaria più ampia, avevano provveduto da soli lasciando inalterati i ruderi della loro casa perché non potevano essere ancora rimossi.
Poi è arrivata la ricostruzione e i soldi a pioggia con la politica, l'imprenditoria e la camorra che giravano senza ombrello.


 

giovedì 18 giugno 2020

Dunque si riprende?

A prima vista parrebbe di sì, anche se non in maniera regolare. Come sempre.
Sono passati silenziosamente ben sette anni dall'ultimo mio post su questo blog e nel frattempo l'acqua che è passata sotto i ponti è finalmente giunta al mare. Non sono stato inattivo in questo periodo: ho seguito seminari, ho partecipato a dibattiti, ho fatto brevi viaggi approfittando di esigenze lavorative (ne parlerò, forse, anche nel blog), mi sono iscritto all'associazione Amate l'Architettura e scritto anche per loro due articoli, attualmente sono membro delle commissioni Cultura e Restauro dell'Ordine degli Architetti di Caserta e, fatto più tecnico-lavorativo, ma che ha molto a che fare con la mia idea di architettura, sono diventato professionista della prevenzione incendi, perché sono convinto che un obbligo normativo debba integrarsi nel contesto architettonico in esame e che questo sia possibile solo avendo piena conoscenza di entrambe le tematiche in gioco. Insomma: ho fatto cose, ho visto gente.
L'idea di riprendere a scrivere sul blog e di mettere giù, nero su bianco, le mie idee è maturata qualche giorno fa. Così oggi ho ripreso in mano il blog e dopo aver riletto tutti gli articoli (tanto sono pochi...), ho finalmente preso la decisione definitiva: riprendo a scrivere.
Le idee su cosa scrivere sono tante e il materiale a mia disposizione è veramente vasto. Ho appunti, foto e disegni che potrei utilizzare per fare dei ragionamenti, ma non voglio proporre un progetto o una lista di cose da fare che so già che non rispetterò perché mi sentirei forzato, se non proprio obbligato a scriverne e ne verrebbe fuori un testo asettico, ossequioso di un obbligo, dai contenuti mediocri. Quindi, qualcosa in pentola già c'è, ma ancora non bolle.

mercoledì 23 ottobre 2013

Caserta (non è) città d'arte

"Città d'arte" è una delle tante definizioni partorite dall'arte e dall'architettura e poi immediatamente disconosciuta perché priva di significato, prima che di fondamento scientifico. Una città d'arte, secondo i palati più fini della politica e quindi dell'opinione pubblica, starebbe a significare una città nella quale si trova un'alta concentrazione di edifici e opere d'arte di grande interesse culturale non solo nazionale. Sono città d'arte le evergreen Venezia, Firenze, Roma, Ferrara, Napoli, Padova, ecc. Tutte le altre città, sono semplicemente città. A seguito di questo fenomeno più folcloristico che storico, le città con qualche monumento importante, come Caserta, aspirano a diventare esse stesse città d'arte per attivare il turismo oltre il monumento. Creato l'equivoco sul nulla, bisogna riempirne il fondo per tenerlo in piedi e allora, da un po' di tempo, fra i casertani è invalsa l'idea che il rilancio del turismo oltre la Reggia, parta dall'apertura di negozi di souvenir e chincaglierie del turista mordi-e-fuggi-con-le-scuole-basse, l'attivazione di navette tra i parcheggi e la Reggia e il recupero del centro storico per i turisti. Purtroppo i casertani sono i primi a non conoscere la propria città, perché non si studia nelle scuole e perché la storia di Caserta sembra essere cominciata con la costruzione della Reggia di Caserta, unico monumento della città (insieme al Belvedere) considerato tale.
La storia di Caserta, in realtà, è molto più antica, non è gloriosa come quelle di Capua vetere e Capua nova, ma è una storia da più parti dimenticata e che spiega tante cose che i casertani accettano come l'anatroccolo appena schiuso dall'uovo. Il primo nucleo abitato risale ai sanniti dei quali si sono trovate delle tombe a cassa in quelli che oggi sono i sotterranei della Reggia e dei quali era a conoscenza anche Vanvitelli, visto che una tomba è attraversata da un muro di fondazione. Fu aperto un museo dell'opera una ventina di anni fa e fu pure chiuso. Un secondo nucleo abitato stabilmente è quello della cosiddetta Casa Hirta su una collina sulla quale si rifugiarono il vescovo di Calatia (Maddaloni) e tutta la sua corte con alcuni abitanti per sfuggire alle incursioni provenienti da Napoli intorno al IX secolo d.C.. Intanto il borgo si ingrandiva, veniva costruita una cattedrale con annesso seminario e, in pianura, una torre di avvistamento. Nel corso degli anni accanto a questa torre fu costruito un primo edificio per ospitare chi nella torre prestava servizio. Intanto nella piazza antistante cominciò a svolgersi un mercato di viveri e tutt'intorno a questo spazio furono costruiti edifici per ospitare mercanti, ma anche truppe e cittadini: era il Villaggio Torre, il primo nucleo della Caserta attuale, rintracciabile in pieno nell'odierna Piazza Vanvitelli, con edificio e torre (Prefettura e Questura) incluse. Intanto nei dintorni il villaggio si allargava, furono costruire un paio di chiese nei dintorni (oggi Via Redentore) e anche il Vescovo cominciò a scendere in pianura non solo per presenziare alle vendite, ma anche per gestire i propri interessi. Gli fu costruito un alloggio grandicello in località Falciano con allegata chiesa e celle per ospitare il suo seguito quando non facevano ritorno a Casa Hirta. Vista poi la difficoltà di raggiungere la collina a dorso di mulo (spesso si cadeva e ci si rimettevano le auguste penne), il vescovo decise di fermarsi in pianura e di spostarvici la sede vescovile nel nuovo palazzo, oggi ex-Caserma Sacchi, davanti alla quale si apriva un grosso spazio prima incolto poi più curato (ex-Ma.Cri.Co). Casa Hirta traslitterò in Casa Erta e poi in Caserta, ma indicò il villaggio in pianura, non più quello in collina che divenne Caserta Vecchia (oggi Casertavecchia). Intanto Caserta si espandeva sotto i Della Ratta prima e gli Acquaviva poi. Il palazzo accanto alla torre divenne reggia e la inglobò, il mercato continuò a svolgersi allo stesso luogo fino agli inizi del XX secolo, furono fondate alcune chiese fra le quale quella detta di Montevergine alla fine di una delle pochissime strade storiche di Caserta, residuato, cioè delle mulattiere precedenti all'insediamento urbano. Arrivano i Borbone, costruiscono la Reggia, presentano un piano mai attuato per fine dinastia, viene eretto un palazzo signorile di un funzionario di corte, Palazzo Paternò nella strada di cui sopra. Arriva l'Unità d'Italia, le due guerre, i monumenti ai caduti, i bombardamenti e si arriva alla lenta, stanca e borghese città attuale. Il mercato oggi si svolge in un luogo fuori-luogo, appositamente costruito, un deserto di asfalto malamente occupato solo due volte a settimana dopo essere stato sfrattato, anche per questioni di ordine pubblico, dalle strade della città. Il motivo dell'importanza del mercato di Caserta è quindi rintracciabile al primo insediamento in pianura, a quasi mille anni fa, tanto per essere un po' esagerati.
In questo brevissimo e sicuramente non precisissimo excursus storico, appare evidente che non ci sono palazzi signorili, oltre il citato Paternò, o monumenti di grande interesse storico-culturale che convincano il turista a restare più di un giorno. Nei piani Borbonici Caserta doveva diventare capitale, ma è rimasta quella che è, provinciale e benché ci si sforzi, in città non esistono luoghi di interesse tale da andare aldilà della storia locale pur importante, ma inutile se circoscritta esclusivamente al luogo. Va anche considerato che se Caserta non avesse un grosso agglomerato urbano, sarebbe un comune sparso con le tante frazioni, alcune inglobate nell'urbe, tutte residuati di insediamenti rurali più antichi (alcuni risalgono ai Longobardi) via via più vicini all'Hirta e alla pianura. Alcune di queste frazioni contengono preziosi palazzi le cui edificazioni vanno dal X al XIX secolo, alcune con caratteristiche peculiari come le cosiddette "collere" di Casolla. Purtroppo si tende a considerare Caserta come città a sé e le frazioni come altro, tant'è vero che è ancora in uso il modo di dire "vado a Caserta" anche se ci si deve spostare nella stessa città. E' questo scollamento fra le due identità che in realtà sono unica cosa essendo la città attuale la somma degli addendi precedenti, che non fa comprendere ai casertani in primis che il turismo stanziale, a Caserta, è difficile se non è accompagnato da iniziative culturali che vanno aldilà dell'ammennicolo in plastica, perché il turista che arriva apposta per vedere la Reggia ha sicuramente il potere economico e il diritto di acquistare un prodotto non come ricordo affettivo, ma come accrescimento culturale. Ad un francese, un americano, un giapponese o ad un cinese, cosa si potrà offrire oltre la Reggia? Se le amministrazioni comunali che si sono succedute in tutti questi anni, cioè dall'elezione diretta del sindaco, non si fossero preoccupate solo di restaurare il Belvedere di San Leucio (che ne aveva ben donde) per farsi belli durante gli eventi organizzati, oggi a Casertavecchia non ci sarebbero il vuoto e la desolazione, le frazioni sarebbero molto più di una semplice indicazione toponomastica, i palazzi gentilizi non sarebbero un ostacolo alla circolazione delle auto in entrambi i sensi, l'ex-Caserma Sacchi non sarebbe esclusivamente un contenitore di uffici comunali così come il parco del Ma.Cri.Co non sarebbe una selva oscura, per anni gestita malamente dalla Curia... e soprattutto la biblioteca comunale, non funzionerebbe come una prostituta cioè a ore (sic!) e non avrebbe fatto l'ultima acquisizione vent'anni fa. Sopratutto nessuno avrebbe il tempo materiale per pensare alla teleferica, perché anche a questo si è pensato!

giovedì 11 aprile 2013

Progettare per chi va in tram

Prendendo spunto da un breve corsivo di Edoardo Persico, Carlo Melograni così intitola un 'piccolo prontuario' sul mestiere di architetto edito da Bruno Mondadori nel 2002. Un testo breve, scorrevole, pratico da leggere, nel quale sono contenuti i bilanci, non per forza negativi e fallimentari, del Movimento Moderno. Attraverso la sua esperienza di architetto, tra teoria e pratica, Melograni spiega come quello dell'architetto sia un mestiere chiamato a contribuire a migliorare le condizioni dell'abitare, non tanto per una classe d'élite che, tutto sommato, potendo far leva su un benessere economico più che elevato, può formare sui propri bisogni, la casa in cui vive, ma su quello 'strato' di popolazione, sempre più numeroso, che non ne ha le possibilità se non limitate alla diversa disposizione dell'arredo o al riutilizzo di spazi accessori per meglio riporre le proprie cose e vivere dignitosamente. Questi sono i viaggiatori in tram (in questo senso ne auspico, personalmente, un maggiore utilizzo, in sostituzione dell'automobile), studenti, operai, impiegati, aggiungo io, piccoli negozianti e artigiani, per i quali gli architetti, secondo una prassi positivista che vedo ancora attuale, prepareranno le case, ma anche gli uffici, i negozi, le botteghe, i luoghi dell'istruzione. Portare avanti queste idee in un tempo in così rapida trasformazioni, nel quale, spesso, i mesi si riducono in settimane, non è cosa facile, ma non è impossibile. Melograni suggerisce allora una possibile soluzione, un 'adagio' oggi spesso criticato di obsolescenza: dal cucchiaio alla città. Non una forma di pan-architettura, nella quale l'architetto progetta la città intera fino a scendere nel dettaglio più infinitesimo che è il cucchiaio da cucina, ma l'approccio del disegno industriale nel quale l'oggetto ha la sua bellezza nella forma della sua funzione: appunto il cucchiaio con la forma concava dell'incavo per meglio adattarsi all'anatomia della bocca, agevolata dal manico leggermente curvo. Così in architettura si dovrebbe badare alla funzione dei vari elementi dell'edificio per meglio adattarsi ai bisogni dell'essere umano che vi abiterà per poche ore al giorno o per tutto il giorno, per facilitare il riposo, la lettura, lo studio, il lavoro, la vita famigliare o lavorativa, dove la forma è modellata sull'uso. Allo stesso modo del disegno industriale, ma con la sensibilità di adattarne il disegno al luogo e, non ultime, alle normative, anche in architettura le soluzioni trovate in precedenza, possono essere riutilizzate, senza effettuarne copia conforme, ma studiandone a fondo i contenuti per riscoprirli e reinventarli, in un gioco nient'affatto superficiale. Una progettazione per elementi componibili dove la fredda serialità commerciale è sostituita dall'economia della progettazione. Queste però, come dice lo stesso Melograni, "sono armi a doppio taglio, capaci di produrre effetti positivi e negativi. Farne buon uso è responsabilità di chi progetta. Anche per l'architetto si pongono scelte in alternativa tra modernità e modernizzazione".

mercoledì 27 febbraio 2013

Abilitato: e ora?

A giochi fatti (l'abilitazione è ormai in tasca benché indossi un paio di calzoni che ne è privo) è giunto il momento di chiedermi che architetto sarò e, soprattutto, se sarò realmente un architetto. I titoli fanno il professionista, secondo le norme italiane, ma non donano automaticamente la sapienza del mestiere e soprattutto non dicono nulla sul suo pensiero, sulle sue inclinazioni, sulla sua cultura, sulla sua sensibilità.
Il mio pensiero ricorrente, formatosi negli anni in cui mi occupavo di programmazione web, precisamente di usabilità e accessibilità dei siti, quando la legge Stanca non esisteva ancora, è che l'architettura (all'epoca il sito web) deve essere accessibile a tutti, qualsiasi disabilità egli abbia, concetto che ho dichiarato per la prima volta in sede di discussione tesi. Proprio per dare a chiunque la possibilità di 'usare' l'architettura, è necessario che il progetto nasca già con l'idea di base che chiunque se ne possa servire liberamente. Sembra banale, ma in troppi edifici, anche di nuova progettazione dove la legge sull'abbattimento delle barriere architettoniche non è un valore aggiunto, ma un vincolo necessario all'approvazione amministrativa, si vedono rampe per disabili relegate negli angoli o raggiungibili con il doppio del cammino, questo perché si considerano utilizzabili solo da chi sta in carrozzella, quando invece è molto più probabile che la utilizzi un anziano con il bastone o un un bel giovane con una gamba rotta e le stampelle. Ed accade anche quando si tengono in secondo piano coloro ai quali è indirizzata l'opera rispetto alla valenza formale ed estetica e si realizzano scaloni per superare grandi altezze, relegando gli ascensori in un angolo nascosto, quasi a voler celare una situazione fisica che si crede imbarazzante. Il concetto di 'rete-umana' e di 'web-accessibility' è stato alla base del progetto di tesi: non vuole essere una mera autocitazione, ma un riprendere le fila di un discorso in embrione.

L'architettura deve 'servire', deve essere 'utile' e deve 'funzionare'. Il funzionalismo cieco degli anni '60 teneva in considerazione solo l'ultimo di questi aspetti ed i risultati erano già sotto gli occhi di tutti e sono diventati drammatici nel corso degli anni. Un esempio che mi viene al momento è quello della stazione ferroviaria di Napoli Centrale: un poligono irregolare gettato in una piazza, funzionale solo a se stesso - come stazione ferroviaria appunto - cupo e desolato. Nel corso degli anni ha subito delle integrazioni, ma solo negli ultimi dieci anni sta cercando di entrare di più nella città, riscattandosi dal ruolo primigenio di confine fra dentro-Napoli e fuori-Napoli.
A chi serve l'architettura? A chi la utilizza prima di tutto, sempre che funzioni. Ancora la stazione di Napoli può essere presa ad esempio. Prima dei lavori di ammodernamento, in stazione si andava esclusivamente per prendere il treno. Era un passaggio rapido dal marciapiede di Piazza Garibaldi (dentro-Napoli) al marciapiede del binario (fuori-Napoli), giocando il solo ruolo di intermediario fra la situazione di pedone e quella di passeggero. Chi serve? La risposta non è unica: serve chi la richiede (prendere il treno), chi non l'ha richiesta (non prendere il treno) e chi l'avrebbe richiesta (prenderebbe il treno). In definitiva serve i passeggeri, ma serve o deve servire anche chi il treno non deve prenderlo.
Infine, l'architettura è utile quando 'funziona' e 'serve' nel senso di servizio, ma anche di utilità. Un discorso ricorsivo apparentemente banale, ma basti pensare a cosa possa essere la stazione di Napoli se funzionasse a dovere, servisse alla grande, ma fosse inutile perché nessuno prendesse il treno, preferendo altri mezzi di trasporto o perché altre stazioni già assolvono egregiamente il loro compito e la Centrale fosse solo un sovrappiù. Utile è anche quando non è solo un passaggio, ma un luogo di incontro, di sosta o di meta finale. Librerie, servizi, esposizioni, installazioni, spazi per concerti, luoghi di riunione, sono solo una parte delle numerose possibilità che può offrire un'architettura pensata e realizzata per soddisfare altri bisogni. Nel caso della stazione, poi, l'incontro breve o il semplice passaggio, può essere facilitato dai servizi esistenti (bar, ma anche sale di incontro/discussione/attesa). Non un semplice luogo di passaggio quindi, ma di piena vitalità urbana.
Questa è solo una prima base del mio pensiero sull'architettura che è ancora in costruzione, basato già su alcuni punti fermi. Mi tocca costruirci intorno un discorso per il quale sto già cercando i vocaboli giusti.

P.S.
Ammetto di essere 'vagamente' vitruviano

giovedì 3 gennaio 2013

Apro la finestra per cambiare l'aria

Rileggendo i vecchi post, ho notato un filo di discussione continuo. L'idea di base del, per così dire, 'vecchio blog', era quella di parlare dei problemi dell'università italiana, in particolare della facoltà che ho frequentato. Mi sono accorto che così non è stato, anzi, lo è stato poche volte, solo all'inizio. In realtà ho sempre parlato di architettura ponendomi dubbi e cercando di darmi risposte andandomele a cercare nelle letture, partecipando alle discussioni, confrontandomi con i colleghi all'università, chiedendo ai docenti. Ho deciso di continuare il discorso su questo blog senza chiuderlo per aprirne un altro, perché il mio discorso sull'architettura è più vecchio del blog stesso, nato poco prima dell'iscrizione all'università e non poteva fermarsi con la proclamazione.
Allora perché il sottotitolo 'Un architetto che parla anche di architettura?!'? Perché oggi gli architetti non ne parlano ed, essendo numericamente tantissimi, è come se non ne parlasse nessuno. Perché l'architettura, sia essa ottima, buona, mediocre, pessima o semplicemente edilizia, è inevitabile. Perché, soprattutto, l'architettura non si nutre di se stessa, non è, per sua natura, cannibale. Tanti sono gli influssi, le suggestioni, le conoscenze, i pensieri e le ideologie che la nutrono, che concorrono, cioè, a formare il pensiero dell'architetto. Perché l'architettura può essere un gesto umile o presuntuoso, pretestuoso o discreto, culturalmente elevato o infimo e i gesti non sono fatti a sé stanti, ma derivano dalla cultura e dalla sensibilità del singolo che può essere più o meno arricchita a seconda della disponibilità ad accettare di porsi nuove domande cercando ancora più nuove risposte.
Non parlerò, quindi, solo di architettura, ma anche di altri 'fatti', prenderò spunto dalla critica, dalla storia, dall'attualità architettonica, dalla pratica edilizia, dalle notizie giornalistiche, dall'arte, dal design, dal cinema, dal caso. Cioè farò quello che facevo anche prima, sperando però di essere più presente, con la sola differenza che adesso l'ho dichiarato apertamente.