Riprendo a scrivere sul blog perché ritengo sia doveroso farlo.
Oggi, 1 novembre 2021, ho avuto la brutta notizia della morte del prof. Carlo Melograni.
Ho parlato di lui quasi subito, nel quarto post di questo blog, presentandolo come "Architetto rassicurante", fatto che ha avuto quale esito inatteso la telefonata di ringraziamento di Melograni che mi preannunciava anche di avermi fatto dono di un suo libro.
Ne ho parlato ancora quando ho umilmente recensito il libro che mi aveva inviato con la sua preziosa dedica.
Oggi è venuto a mancare alla veneranda età di 97 anni nella sua Roma che lo ha visto nascere l'11 gennaio del 1924 e che ha contribuito, nel suo piccolo, a liberare dai nazifascisti.
Non parlava spesso della sua militanza giovanile nella Resistenza e quando lo ha fatto, è stato sempre in maniera sommessa. Ne accenna implicitamente parlando brevemente del giovanissimo architetto Giorgio Labò in "Architettura italiana sotto il Fascismo" raccontando del dolore del padre che dopo averlo cercato ininterrottamente e pericolosamente per quattro giorni, scopre all'alba del quinto che suo figlio era stato fucilato due giorni prima. Per questo Melograni scelse di far parte della formazione della Resistenza nella quale aveva militato anche Labò. Fino ad oggi ne è stato l'ultimo testimone.
Forse per la sua indole innata, forse per le passioni giovanili, forse per il suo passatto di combattente per il popolo, Carlo Melograni architetto ha avuto sempre l'occhio rivolto a coloro che gli edifici li abitano. La sua non era un'architettura votata a stupire, a elaborare forme inedite, a cambiare il verso della Storia, ma un'architettura attenta al modo di abitare, un'"architettura civile", per dirla con Bruno Zevi che definiva così l'architettura di Giuseppe Pagano.
E proprio a Pagano è dedicato il primo scritto di Melograni, edito nel 1955 dalla casa editrice "Il balcone", un racconto, con molte foto, dell'architettura dell'istriano, prima fascista critico, poi allontanatosi per l'inconciliabilità delle sue idee civili con quelle fasciste e infine, per un casuale incidente, arrestato dalla milizia mussoliniana e da questa consegnato ai nazisti che lo deportarono a Mauthausen dove trovò la morte non prima di aver rilevato e ridisegnato la cella nella quale era imprigionato, segno evidente che stavano per uccidere un uomo, ma non il suo spirito.
Ma Melograni amava anche Edoardo Persico e ispirandosi a lui e ad una citazione presa da un suo articolo, decise di scrivere, dopo tanti anni, una volta raggiunta la pensione non prima di aver contribuito a fondare la Facoltà di Architettura di Roma Tre dove fu preside fino al 1997, un libro intitolato "Progettare per chi va in tram. Il mestiere dell'architetto" (2002, Bruno Mondadori), recentemente ristampato. Si tratta della risistemazione e della messa per iscritto di alcune lezioni da lui tenute durante i vari corsi universitari che lo hanno visto docente. Dal testo si percepiscono due fattori fondamentali: l'amore per l'architettura e l'amore per gli studenti.
Altri due testi seguono questo, prodromo dell'esplicitazione del pensiero melograniano e sono il già menzionato "Architettura italiana sotto il Fascismo. L'orgoglio della modestia contro la retorica monumentale. 19267-1945" (2008, Bollati Boringhieri) e il più corposo di tutti "Architetture nell'Italia della ricostruzione. Modernità versus modernizzazione 1945-1960" (2015, Quodlibet), che segue il precedente sul tema dell'architettura razionalista e della sua evoluzione fino agli ultimi fuochi.
In tutti i suoi testi Melograni parla da testimone diretto degli eventi architettonici che vanno dal 1926 al 1960, in parte perché raccolti dalle testimonianze dirette e dagli insegnamenti degli autori stessi, nella maggioranza dei casi da lui personalmente conosciuti, in parte per aver partecipato in prima persona alla ricostruzione degli anni '50 del XX secolo, come ad esempio al Tiburtino con Quaroni e Ridolfi nel quale ebbe un ruolo di progettista di non poco conto.
Ma Melograni ha sempre scritto di altri, mai di sé stesso. Per conoscere qualcosa di lui era necessario seguire una delle sue numerose "conversazioni" nelle quali parlava delle sue opere per fini meramente didattici, spiegando ai futuri architetti come nasceva un'architettura e quali fattori erano implicati nella genesi.
È così che ho sentito parlare del Liceo Ariosto di Ferrara, lo stesso frequentato da Giorgio Bassani, teatro suo malgrado di una delle tante ignobili epurazioni fasciste. Parlò del progetto principale, di come abbia tratto ispirazione da progetti e elementi già costruiti, di come il pensiero pedagogico abbia influito nell'elaborazione e di come fosse confluito nel segno sulla carta. Insegnò che non era sbagliato riprendere un elemento già progettato e costruito altrove se questo rientrava perfettamente nel progetto sul quale si stava lavorando.
Quando fu chiamato per l'ampliamento del Liceo per il quale ideò un nuovo ingresso pedonale e carrabile, raccontò che lo divertì molto il fatto che una trave che aveva intenzionalmente lasciato a vista in un'area comune, era stata dipinta con i colori delle bandiere del mondo in occasione di un'attività didattica del Liceo. Confessò che non era a favore di ridipinture o graffittature per coprire superfici di cemento o di intonaco, ma gli piacque l'idea che quella trave fosse stata utilizzata a scopo didattico, il che dimostrava ancora una volta che la sua intera architettura era stata utilizzata per il suo scopo primigenio: l'insegnamento.
Ha amato Ferrara e ha amato anche il Liceo Ariosto tanto da aver richiesto nel 2016 che le sue ceneri potessero riposare nel giardino del Liceo, dove ogni anno, nuovi studenti, si prepareranno alla vita, fra le mura progettate per loro da un Uomo che li amava senza conoscerli.